Sinossi
Un Gesù giovinetto in tunica bianca guarda stupito un’Afrodite appena uscita dalle spume del mare, incontra Maria di Magdala che gli insegna a ballare, s’imbatte in una matta in delirio e la calma con un abbraccio. Questo nuovo gioiello di Giuliano Scabia non é la storia di un’educazione sessuale, ma l’imprevedibile ritratto affettuoso di un figlio di Dio che non conosce la natura umana di cui si é rivestito e dubita di essere capace di realizzare i miracoli e di affrontare un destino di sacrifici. Il buon Giuda forse crede più di lui e lo tradirà per amore. Ma c’é anche una ricomparsa finale di Afrodite e un addio prima che i due scompaiano in diverse direzioni. Insieme al Teatro Vagante di Scabia.
Prefazione
All’inizio di questo testo s’impone un’immagine semplice e poetica. Un Gesù giovinetto in tunica bianca e una Afrodite nuda, appena uscita da quelle spume del mare da cui il mito la volle far nascere (ma la sua reale identità ci viene dichiarata solo dal titolo). Due dèi freschi, ancora nuovi alla vita, in qualche modo incoscienti del loro essere, anche lei per quanto la sua naturalità femminile la faccia apparire più disinvolta: lui che sa soltanto di essere stato inviato sulla terra da molto alto a morire per amore dell’umanità; lei, che l’idea dell’amore incarna, pronta a negargli la capacità di toccare un tema del genere senza avere mai ‘conosciuto’ una donna. Eppure si guardano e si piacciono, per quanto il figlio di Dio possa dubitare di trovarsi di fronte alla proiezione di un suo desiderio; e la sfugge.
Ma la visione, suggerita dalla purezza incantata e deliziosamente infantile che investe Giuliano Scabia quando scrive delle grandi cose della vita, cattura chi legge, tanto da non permettergli di staccarsi dalla pagina finchè il racconto non arriva alla chiusura, ponendoci di fronte a un ultimo colloquio tra i due, prima che rientrino ciascuno nella propria orbita, mitologica o religiosa che sia . ma, subito dopo la scena d’apertura, Gesù incontrerà una seconda donna in apparenza molto simile alla prima, Maria di Magdala, professionista dell’amore, che trova infestata dai diavoli: e allora la esorcizza e lei per contraccambiare gl’insegna a ballare, e gli fa sentire il fuoco del suo corpo.
Seguirà subito l’irruzione di una matta in delirio, da lui subito calmata con un abbraccio, a completare il trittico delle provocazioni femminili con cui, senza ingenuità né malizia, l’autore si preoccupa di confrontare Gesù per rispondere in modo più diretto alle esigenze fisiche della natura scelta per la sua avventura umana, da cui la Chiesa ha cercato a posteriori di proteggerlo riducendolo a cocco di Madonna con contorno di pie donne, forse per adesione alla teoria di quell’apostolo che, nel testo, al momento della resurrezione, dirà che il figlio di Dio sceso in terra non poteva che essere a un tempo totalmente uomo e totalmente donna.
Ciò che dà senso e verità a questa figura è il suo sapere soltanto a cosa è destinata, ma rimanendo continuamente costretta a chiedersi come arrivarci, in preda al dubbio sulle proprie capacità reali di essere in grado di realizzare quel che da lui ci si aspetta.
E infatti questo Gesù aspetta quattro giorni la morte di Lazzaro, senza guarirlo da vivo per potersi mettere alla prova di fronte alla morte, dato che dovrà affrontarla ben presto di persona e non si sente neppure di ottenere dal Padre i mezzi per resuscitare l’amico.
Ritrovarsi uomo significa per lui non avere le certezze dell’entità superiore, tanto da evitare fino all’estremo a ricorrervi: dubita infatti prima di tutto di se stesso, ma anche delle visioni che lo ossessionano e che confonde spesso con tentazioni, e forse, come i miracoli che gli vengono attribuiti, lo sono ( “siamo certi che non vengano da dentro di noi? Da noi, dico.”)
Un altro da sé in cui specchiarsi lo trova allora, nelle pagine centrali del mistero rivisitato, in giuda, l’unico che il protagonista gratifica dell’aggettivo “amato”: giuda, personaggio profondamente umano e ansioso di credere, che gli rimprovera il dubbio, lo incita alla fede e, non riuscendo più a cogliere una logica nelle contraddizioni del maestro, finisce per trovare in quella che ormai arriva a giudicare un’impostura la giustificazione per un tradimento causato da un eccesso di buona fede.
GIUDA : Non voglio questo pane. Tu stai solo facendo una rappresentazione di te stesso per noi.
Stai cercando di imprimerci il tuo potere attraverso il ricatto della tua morte.
GESU’ : E’ vero. Tu l’hai capita, Jude, l’essenza dei sogni e delle visioni. Ma ora ti sei escluso. Non vuoi più giocare con me.
GIUDA : Non è un gioco. Non ti credo, è vero. Non credo al tuo incantesimo.
GESU’ : non morire, giuda, non morire. Continua a giocare con me. Non smettere di credere.
GIUDA : E tu, ci credi ancora?
GESU’ : Sì, io co credo. (Giuda sorride, ma si vede che è triste). Poco fa ho sentito un brivido. Ho percepito la tua paura per avere visto il vuoto.
È questa la scelta di un linguaggio quotidiano e contemporaneo per rendere il sacro ed esprimere una supposta verità che ha cambiato il mondo a farci aderire a una cronaca ispirata che ai toni drammatici preferisce la levità della fiaba: e difatti alla Cena fa seguire una lezione di ballo di Maria di Magdala a Gesù, mentre gli altri commensali cantano, e intanto si organizza la partenza per Gerusalemme e quindi il cammino verso la Via Crucis, che non perderà i caratteri di immediatezza quotidiana di tutta l’azione.
La stessa impronta viene trasmessa anche al discorso della montagna, in uno degli intermezzi di riflessione, commento o completamento, che si infilano nell’azione; e se non tutti sono da recitare, e l’autore ammette di averne a volte saltato alcuni nelle esecuzioni da lui curate, si tratta di sezioni utili anche alla lettura per la loro complessità di piani e di aperture e gli accostamenti che consentono, scindendo anche gli interventi dei supposti interpreti di turno da quelli dei personaggi.
E, proprio alla fine della scena con Giuda appena citata, compare anche un breve brano poetico dell’ Insurrezione dei semi. Non a caso anche questa storia confrontata con spezzoni di ipotetica realtà e rivissuta da vicino con un vivo senso dell’immaginario, si rivela nelle sue ultime sequenze uno degli episodi del Teatro Vagante, il lungo viaggio iniziato da Giuliano Scabia negli anni ’60 e già quasi giunto alla trentesima puntata, sulla scena e nella mente, tra terra e cielo. Un percorso per attori, e per dèi.